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Categoria: Traslazioni

Aujourd’hui, lorsque l’on s’interroge sur les possibilités d’une révolution en Europe et ailleurs dans le monde, on se rend compte que la question devrait être posée différemment. En effet, il s’agit plus d’analyser, comprendre et sentir comment les conditions (économiques, politiques et esthétiques) préalables à l’éventualité d’une révolution structurent les rapports des forces existants, que de savoir si la révolution sera l’effet le plus conséquent de l’espace actuel des équilibres. Il s’agit aussi de redéfinir la représentation classique des groupes sociaux (prolétariat = classe ouvrière = masse = multitude = esclave / patronat = bourgeoisie = chef = capitaliste = maître), par le biais de catégories nouvelles ayant la capacité de maintenir l’intensité et la scientificité de la dialectique « dirigeants / subalternes », tout en la considérant dans une perspective transnationale, planétaire, cohérente et adaptée à la critique du néocapitalisme contemporain. Quelles forces peuvent alors rapprocher les différences parmi bergers blancs, employés jaunes, cols bleus et noirs dans l’unité passionnelle de leur survivance politico-esthétique ? Lorsqu’un mouvement contestataire surgit pour revendiquer ses intérêts contre le démantèlement néolibéral des droits sociaux, ne faudrait-il se demander d’abord, en paraphrasant Antonio Gramsci : quel est le contenu social de la multitude en mouvement et quelle était la fonction de cette multitude dans l’équilibre instantané des puissances globales et transnationales, qui sont en train de métamorphoser, comme le surgissement du mouvement même le démontre ? Ensuite, quel est le sens, d’une part, politique et social et, d’autre part, esthétique et médiatique, des revendications présentées par les représentants du mouvement et à quelles exigences effectives correspondent-elles ? Quels sont les moyens employés et quel degré d’efficacité éventuelle peuvent-ils avoir à l’intérieur de cette lutte ? Par ailleurs, la possibilité qu’une force extérieure s’approprie cette lutte afin de servir ses propres fins de manière démagogique doit être supposée seulement à la fin du raisonnement et jamais au préalable. Or, tout cela n’aurait aucun sens si l’on n’avait pas conscience de la conventionalité historique, humaine de ces questions et de la nécessité de les adapter ultérieurement au contexte social et culturel de référence.

Mario Perniola è morto. Lunga vita a Mario Perniola.

Ceci n’est pas un article sur Mario Perniola.

Una storietta racconta che la filosofia di Mario Perniola si sia orientata contro la comunicazione non per scelta razionale, ma per istinto, per indole. Invitato ad un talk show, egli sarebbe stato incapace, sommerso dalle chiacchiere, di mostrare le proprie abilità dialettiche, soccombendo alla stupidità di invitati più “comunicativi”. La brutta figura del filosofo ne avrebbe sancito così il fallimento mediatico, stimolando il conseguente disprezzo nei confronti dei mezzi di comunicazione di massa.

Una storietta narra della partecipazione televisiva di un filosofo ad un famoso programma televisivo, in seguito alla pubblicazione di un pamphlet di attualità politica dal contenuto alquanto commerciale. Le premesse sono buone. Ci sono tutti i requisiti per fare audience e catturare l’attenzione del pubblico : l’analisi colta, il paragone azzardato, il riferimento a un politico coinvolto in scandali di natura sessuale. Eppure la presenza del filosofo è destinata allo scarso riscontro mediatico.

Queste storiette sono molto simili. L’una pare il simulacro dell’altra, potremmo addirittura credere che si tratti dello stesso racconto. Abbiamo la sensazione che l’ordine scelto per esporle non sia determinante, potremmo anzi invertirne la lettura, prima la seconda e poi la prima: il cambiamento sarebbe minimo o nullo. In ogni caso, leggendole, sappiamo che stiamo passando dall’una all’altra.

Mario Perniola come educatore.

Un’altra storietta riguarda invece la pubblicazione di un libro. Non la racconteremo poiché essa viene esposta, nel migliore dei modi possibili, all’interno del libro stesso. Contro la comunicazione è un’opera che pur mantenendo, e forse più che mai affermando, un’estetica dell’insubordinazione  – Perniola non ha scritto per incitare le masse a rovesciare il sistema né, a contrario, per vendere astutamente prodotti all’industria culturale, sembra verosimile piuttosto che abbia scritto a se stesso e per se stesso, in principio. Quando poi il principio è venuto meno e si è trattato di dover pubblicare, di fronte a questo comune dover  essere accademico, l’estetica nella sua forma più classica, è tornata ad imporsi quale tendenza fondamentale dell’opera – ottiene un certo successo e vince con il pensiero ciò che è più difficile.

Un cadavere.

Il successo va però inteso in senso letterale, il successus (participio passato di “succedere”) come ciò che succede, ovvero, ciò che viene dopo. E la dialettica illuminista insegna che sovente, poi, il sostrato negato, dimenticato torna, magari colla maschera di una cosa sempre nuova. Così si passa dall’insubordinazione al dominio del simulacro e poi ancora, dallo stesso al differente. Il vecchio esteta si contamina non tanto di politica quanto di spettacolo e le sue pubblicazioni su Silvio Berlusconi prima e su Mario Monti poi minacciano di convertire il suo sentire in una fraseologia da falso rivoluzionario.

Per passare da un’opera all’altra però il tempo consumatore di tutte le cose umane conta relativamente.

Prossimità nella presa di distanza.

Sei stato un educatore, un cadavere, un filosofo ed una storietta. Sei stato un transito neutro. Tra i poli del sentire e della ragione illimitatamente sospeso nel mezzo – tra il non più e il non ancora . Ed ora?

Ci sarà forse chi ti cercherà tra gli scarti informatici, tra quelle logiche contemporanee legate ad una ripetitività “articolata”, ad una “molteplicità” seriale, ri-attualizzando la potenza estetica di una “ars” che corrisponde sottilmente alle implicazioni filosofiche e politiche delle opere di un fabbro. E forse anche noi, un giorno, potremo sentirci più fabbri che operai.

Più che raccontarci un filosofo televisivo, le logiche e gli scarti incommensurabili dell’estetica informatica ricorderanno, tra l’altro, almeno a noi stessi e per noi stessi, un Perniola fabbro e inattuale che, al pari di quel Veturio Mamurio, primo artista romano, realizzò opere per celebrare, mantenendola, la fine della pestilenza.

Come nella storietta che Plutarco riporta in “Vita di Numa”, per mantenere Roma immune dalla peste venne chiamato proprio Veturio Mamurio, artista fabbro, a cui, fu affidato l’incarico di scolpire undici copie dello scudo di bronzo caduto dal cielo quale elemento salvifico da preservare e proteggere da furti potenziali. Le riproduzioni così realizzate, perfettamente identiche all’originale, resero l’oggetto autentico irriconoscibile, dissolvendolo e tutelandolo nel contempo.

Il filosofo fabbro si colloca allora in quel campo operazionale in cui ripetizione, differenza e simulacro permettono al sentire umano di mouversi, con precisione perfetta ed equilibrata, tra le pagine di un libro, come una mano esperta si muove tra le pieghe delle vesti e delle sottane.

Crepuscolo di un idolo

Immaginiamo una corda tesa. Quella famosa corda tesa sull’abisso dell’esistenza. Da una parte il parto: fanciullo decrepito o, volgarmente, bambino vecchio. Dall’altra, la vecchiaia come decadimento delle funzioni biologiche di un corpo che presto non sarà più.

L’intreccio dei fili di questa sottile linea di sangue rappresenta il passaggio o la mutazione molteplice del singolo alla possibilità costante della morte e dell’apertura.

D’altra parte, la linea umana del tempo non implica l’esistenza cosmica di un divenire temporale oggettivo.

Se l’immagine possibile e, per noi, reale della morte di un filosofo non ha dunque alcun valore fisico oggettivo, non sarebbe allora contradditorio affermare che il passaggio o la mutazione molteplice del singolo, che rappresenta certo un’esperienza umana, lungi dall’essere un venir meno dell’essere, non è altro che un transito oggettivo dallo stesso allo stesso.

 

Dati gli assiomi secondo i quali la comunicazione sarebbe da una parte nemica delle idee e, dall’altra, oscillerebbe tra una produzione di idee senza parole e una grafica di parole senza idee, non stupisce che nell’attuale campo del cinema comunicativo di massa agiscano essenzialmente due categorie, rappresentanti rispettivamente una merce spettacolare e un design verboso.

Nella prima l’idea conta per se stessa, lungi dal pregiudizio avanguardistico per cui l’idea debba essere una nuova idea, essa diviene presentabile a patto che manchi di un’articolazione, di una concettualizzazione propria o critica. Il che non le impedisce di essere comunque formalizzata o semplicemente rappresentata, come accade in quel cinema del significante puro, del simulacro narcisistico (ad esempio del quale i più recenti film hollywoodiani non sono e saranno altro che figli di cui si sono resi responsabili padri più o meno “vecchi” come Psycho di Gus Van Sant, o Shutter Island di Martin Scorsese). Il design delle parole risale invece a tempi meno recenti e trova, forse e per certi versi, uno dei suoi più degni e intuitivi precursori in La notte di Michelangelo Antonioni, opera ibrida che tuttavia si colloca a metà strada fra questa seconda categoria e quella ormai divenuta classica di un cinema meno commerciale, meno pubblicitario e, pertanto, anche meno attuale, veicolo di idee e di parole. La resistenza di quest’ultimo è attestata dalle forme storiche di quelle “nouvelles vagues” mondiali che avrebbero sans doute dovuto chiamarsi con più esattezza: nuove onde. Le loro figlie emergenti ne costituiscono d’altronde protesi più lucide ed elaborate. Tuttavia queste, spesso confinate alla contraddizione ristretta, relativa del territorio museale o, nei casi più radicali, soggette all’ambiguità del bando, persistono, sopravvivendo solo a volte, accanto allo sproloquio della categoria imperante.

Ma un cinema sotterraneo, informe si afferma sottraendosi maggiormente all’attualizzazione di questi esseri-categorici; un cinema così sottile, gassoso e fine e aereo, da sembrare appena percettibile. La sua quasi totale invisibilità stimola più che mai uno sforzo di ricerca e si spinge ai limiti del visibile, dove l’occhio meccanico stenta la messa a fuoco e, per vizio di rifrazione, diviene ametrope, suggerendo allora una messa in discussione delle fenomenologie percettive, fisiche e politiche. Tra l’organico e l’inorganico, si tratta di un cinema quantistico, sospeso e assolutamente altro: senza idee né parole, ma dalle infinite potenzialità imprevedibili. Non perché non pensi, piuttosto perché in esso nulla è dato di precostituito; mancandogli un linguaggio proprio, una proprietà, attraversa gli interstizi e gli errori erranti e i lapsus e i vuoti verbali, essendo privo di un oggetto relativo traspare all’orizzonte delle idee, percorrendone i contorni e le superfici superflue. Resta tuttavia, tra i simulacri, le protesi, gli scarti, disponibile all’innesto sui corpi di spettatori-registi. Ad essi infatti il compito di contribuire quasi ex nihilo alla sua creazione. Questo stile cinematografico, unico stile per acinephili, fermenta tra i poli tanto classici quanto estetici di una poesia muta e di una pittura cieca, ossia tra concetti quasi materici, inestricabilmente intrecciati. Questi sono pensieri-affetti e smeriglio di vetro, di cui,volendo sperimentare, le immagini mute di un’opera Limite come quella di Mário Peixoto e le parole cieche di un’opera Blue come quella di Derek Jarman, tracciano la sopravvivenza. Così, dall’infinitesimale correlazione di tracce corporee di sentimenti cerebrali, incommensurabilmente prossime nella distanza, nascerà un cinema in-attualizzante.